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Cultura, lo strabismo di De Luca

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l’editoriale
Mezzogiorno, 8 marzo 2022 – 08:02

di Enzo d’Errico

È prematuro parlare di vittoria perché certamente De Luca non mollerà la presa. Tuttavia, visto che le buone notizie ormai sono rare, è giusto sottolineare che l’approvazione del bilancio preventivo, condivisa ieri da tutto il consiglio d’indirizzo, restituisce fiato al Teatro San Carlo e offre un pizzico di speranza a chi, come questo giornale, si è battuto fin da subito affinché il simbolo della nostra identità culturale non diventasse ostaggio di vendette politiche ordite per motivi estranei alla qualità artistica degli allestimenti lirici e dei concerti in programma. Se il risultato è stato raggiunto, lo si deve in gran parte alla mediazione di Gaetano Manfredi che, con la sua tenace pazienza, ha evitato che la frattura aperta dalla Regione con l’inopinato taglio dei fondi (7 milioni invece di 11) inghiottisse il destino del Massimo. Poteva venirne fuori una disfida, il primo evidente contrasto tra sindaco e governatore. Manfredi, invece, ha scansato con intelligenza la trappola, confermando senso istituzionale e abilità politica. Anche questa, ovviamente, è una buona notizia. D’altra parte, come avevamo scritto, il presidente della Campania si era ficcato in un vicolo cieco, avanzando una serie di obiezioni prive di fondamento amministrativo, rispedite puntualmente al mittente dal Ministero della Cultura, ente vigilante per statuto. Doveva uscirne in qualche modo senza perdere la faccia: quindi ha approvato il bilancio preventivo ma ha rimarcato pure che la denuncia alla Corte dei Conti contro la promozione di Emmanuela Spedaliere a direttore generale seguirà il suo corso.

È inutile ribadire che di questa nomina gli uffici di Palazzo Santa Lucia erano a conoscenza da due anni e che la scelta dei ruoli apicali spetta, per statuto, al sovrintendente e non «chi mette i soldi». Così come è superfluo ricordare che l’incriminato stipendio di 150 mila euro l’anno corrisponde, e forse nemmeno, a quanto guadagna uno dei tanti dirigenti regionali che spingono De Luca ad avventurarsi in battaglie perse fin dall’inizio. Ad esempio quella intrapresa ieri, sempre contro la dirigenza del nostro palcoscenico lirico, con l’invio di una pec nella quale si chiedono chiarimenti sulla pianta organica dimenticando che è stata già approvata dal ministero delle Finanze, da quello della Cultura e, udite udite, dalla stessa Regione che siede nel Consiglio d’Indirizzo. Viene quasi da chiedersi se il governatore, cui si può rimproverare tutto tranne l’assenza di fiuto politico, conosca davvero la geografia dei territori dove taluni suoi solerti collaboratori lo spingono ad entrare oppure se gli venga messa sotto gli occhi una mappa approssimativa, ritagliata per l’uso. Fatti suoi. Appare evidente, comunque, che i fallimenti e le figuracce sul fronte culturale si succedono a ritmo serrato.

L’ultima gaffe è la sortita esibizionista di Dino Falconio, presidente del Festival di Ravello, che senza avvisare nessuno ha annunciato l’arruolamento di Valerij Gergiev, il direttore d’orchestra russo sodale di Putin, nel cartellone musicale della rassegna estiva. Ma il caso più clamoroso riguarda il quartier generale del settore, la Scabec, una società partecipata usata in questi anni come rampa di lancio per la distribuzione di prebende d’ogni tipo. Oggi vanta un buco di bilancio che si aggira intorno ai tre milioni e una cinquantina di dipendenti con contratti a tempo determinato rinnovati in continuazione. Qualche settimana fa sedici di essi (quasi tutti napoletani, compreso un disabile) sono stati licenziati da un giorno all’altro senza motivazioni solide. Gli altri (quasi tutti salernitani) sono rimasti al loro posto nonostante il piano industriale prevedesse soltanto venti assunzioni. Risultato: quella che era un’azienda a capitale misto e con pochi dipendenti, è diventata una società a capitale pubblico le cui azioni (vendute dai privati a Palazzo Santa Lucia) ora valgono meno di zero (con conseguente danno alle casse regionali) e l’attività risulta praticamente ferma. Come se non bastasse, tra i responsabili di tale disastro sono tuttora al loro posto, a partire dai consulenti legali e amministrativi che hanno preparato i contratti di lavoro ritenuti successivamente irregolari al punto da giustificare (a loro dire) l’estromissione dei destinatari. De Luca conosce queste cose oppure gliene raccontano soltanto una parte? Davvero ha permesso che Scabec andasse in rovina sotto i suoi occhi? Davvero ha avallato sedici licenziamenti senza battere ciglio e, soprattutto, senza chiedere che a pagare fossero anche i responsabili di un simile pasticcio?
Poi che tutto ciò avvenga con la diretta complicità del Pd (la leadership provinciale, come sempre, è rimasta in silenzio; la nuova presidente di Scabec è quell’Assunta Tartaglione che nel suo curriculum politico vanta, come unico primato, l’aver ridotto il partito di cui era segretario regionale ai minimi storici) stupisce soltanto chi ritiene che in Campania la compagine democratica rappresenti ancora la sinistra riformista e non, come purtroppo è, un nugolo di interessi personali con cui, al di fuori di questi confini, nessuno vuole avere a che fare per timore di restarne invischiato. Pensate soltanto al povero ministro Franceschini che, dopo aver difeso una sua dirigente sbeffeggiata volgarmente da De Luca, si è dovuto beccare una gragnuola d’insulti che, con eleganza e senso istituzionale, ha preferito lasciar cadere nel vuoto. Ecco perché, alla fine, l’approvazione del bilancio preventivo del San Carlo solleva un lieve moto d’ottimismo. Ci racconta, infatti, che la cultura — ossia la radice della nostra identità, ciò che siamo stati, siamo e saremo — non è diventata soltanto una merce di scambio, il propellente di qualche carriera burocratica o politica ingrassata con la distribuzione di incarichi e fondi pubblici ai fedelissimi, ma può ancora essere un asset decisivo sul quale disegnare finalmente il profilo di una Napoli moderna, internazionale, contemporanea, dove vincono efficienza e meritocrazia invece di sotterfugi e favoritismi. Una metropoli europea, insomma, che considera la sua storia una risorsa per coniugare al meglio il presente, una leva per garantire il futuro ai suoi figli. E non un paesone alla periferia dell’impero, dove zar e zarine si spartiscono il potere nell’indifferenza generale.

8 marzo 2022 | 08:02
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