l’analisi
di Federico Fubini11 feb 2023
Olaf Scholz, cancelliere federale della Germania
Spesso considerato il cancelliere riluttante su qualunque cosa abbia a che fare con l’Unione Europea, Olaf Scholz ieri sarà tornato a Berlino soddisfatto. Senz’ombra di vanagloria: quietamente, silenziosamente soddisfatto. Ieri a Bruxelles la Germania ha ottenuto tutto ciò che voleva e non ha concesso niente di ciò che non voleva, sui grandi temi che spiegavano la convocazione di un vertice straordinario proprio ieri.
La volontà di Scholz
Il Consiglio europeo era stato voluto per coalizzare una risposta dell’Unione alla sfida dei duemila miliardi di dollari in sussidi all’industria offerti dall’amministrazione americana, con i suoi piani sulle infrastrutture («Build Back Better»), sui semiconduttori («Chips Act») e sulle tecnologie verdi («Inflation Reduction Act»). E alla fine una risposta ha iniziato a profilarsi, eccetto che non è europea: a Bruxelles si è deciso che ogni Paese avrà mani più libere per fare da sé, senza alcun nuovo progetto comune né sul piano finanziario, né su quello industriale. È quel che voleva dall’inizio Scholz. La Germania chiedeva maggiore discrezionalità nel distribuire aiuti di Stato dal suo bilancio – il più robusto d’Europa – ai settori toccati dal rincaro dell’energia o dalla concorrenza americana nella transizione verde. Dunque i colossi tedeschi della chimica, dell’automobile o dei semiconduttori non sono esclusi dal novero dei potenziali beneficiari.
“Meno” Europa
Quel che la Germania non voleva invece era, essenzialmente, più Europa. Non voleva né un fondo relativamente piccolo, ma in tempi brevi, per accompagnare progetti industriali europei. Né in prospettiva il progetto di un fondo strategico più ampio che incentivi settori industriali su scala europea nelle tecnologie del futuro: da una filiera dei semiconduttori, a una rete di produzione di batterie, a un sistema di approvvigionamento delle materie prime essenziali della transizione verde fino – perché no – all’industria della difesa. Tutto questo al vertice di Bruxelles resta fermo alla stazione di partenza mentre Berlino, e in misura minore Parigi, proveranno a dare soluzioni nazionali – a colpi di aiuti di Stato – al problema globale posto dall’interventismo pubblico degli Stati Uniti e anche della Cina. Al massimo, Germania e Francia non faranno che distorcere a proprio favore la concorrenza con le altre imprese europee.
L’Italia
Le conclusioni del vertice peraltro non recano alcun cenno neppure a un’idea che il governo di Roma voleva portare al tavolo e, anche qui, Berlino non ama: alleggerire l’impatto contabile – sul deficit – degli investimenti nei settori sui quali ora gli aiuti di Stato saranno permessi. Senza quel trattamento speciale – la golden rule che Mario Monti propose a Bruxelles fin dal 1999 e da allora mai decollata – l’Italia rischia di poter distribuire ben pochi sussidi. Spendere per quelli potrebbe infatti scontrarsi con i vincoli del Patto di stabilità: poco importa che il governo di Roma possa disporre di più «flessibilità» nell’uso dei fondi europei, inclusi quelli del Recovery, come effettivamente l’Italia ha ottenuto a Bruxelles.
Il confronto
La strada dunque resta lunga. È probabile che presto l’idea tedesca di fare da sé di fronte al colbertismo di Stati Uniti e Cina si riveli illusoria. Al cospetto dei due colossi globali delle tecnologie, nessun Paese europeo va oltre lo status di media potenza costantemente soggetta al rischio di vassallaggio. Per questo il confronto su un fondo strategico per progetti europei – con gestione europea – inevitabilmente tornerà. Tornerà anche l’idea di trattare gli investimenti con intelligenza nel calcolo del deficit. Per quel momento, l’Italia dovrà farsi trovare pronta. Perché le partite politiche in Europa non si vincono con i colpi di scena, né con quelli di collera. Servono un metodico, lento accumulo di credibilità, una paziente tessitura di alleanze e gli argomenti per dimostrare le proprie ragioni. Il resto è solo energia sprecata.
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