“Non mi interessa formare rapper professionisti, né scoprire la nuova promessa del rap italiano. Quello che mi interessa davvero è che trovino una voce, e soprattutto il coraggio di farla sentire. E se quella voce poi la usano in musica, in un libro o semplicemente per spiegare cosa provano…è già tanto. È già tutto”.
Parla dei ragazzi detenuti Francesco Carlo, in arte Kento. Da 15 anni li aiuta a creare ‘barre’, ossia le strofe rap, tenendo laboratori di scrittura e poesia. Le barre come unità di misura della musica, ma anche del tempo trascorso in carcere: centinaia gli incontri, migliaia i giovani degli istituti penali minorili coinvolti. È di giovedì scorso il suo ultimo spettacolo con i ragazzi dell’Ipm di Treviso. Per tutti loro, la prima esibizione dal vivo di fronte al pubblico “ristretto” della comunità penitenziaria.
Com’è andato lo spettacolo?
Benissimo. E posso dire con orgoglio che è stato un momento di grande soddisfazione, sia per i ragazzi che per tutti coloro che hanno lavorato dietro le quinte per renderlo possibile. Non si è trattato solo di una performance artistica, e questo successo non è solo dei ragazzi, che con impegno e passione hanno reso lo spettacolo speciale. La sinergia tra l’Ipm, la scuola, le istituzioni locali, le associazioni – devo citare Crisi Come Opportunità, con cui collaboro ormai da anni -, le forze dell’ordine e le istituzioni nazionali è stata determinante. Ogni parte ha contribuito con il proprio impegno e la propria expertise, creando un ambiente favorevole, dove i ragazzi si sono sentiti supportati e valorizzati. La scuola ha fornito il contesto educativo e l’accompagnamento didattico. L’Ipm ha garantito che l’evento potesse svolgersi in un ambiente sicuro e protetto. Le forze dell’ordine, con la loro presenza discreta ma fondamentale, hanno reso possibile che tutto si svolgesse in un clima di serenità e rispetto. Anche le istituzioni locali hanno giocato un ruolo importante, contribuendo con risorse, logistica e, soprattutto, con un supporto che ha permesso di far sentire i ragazzi parte di una comunità più ampia. Le associazioni che collaborano sul territorio hanno messo a disposizione la loro esperienza, creando ponti tra il mondo carcerario e quello esterno. E poi, il supporto delle istituzioni nazionali, che hanno dato una visibilità maggiore all’evento, sottolineando l’importanza di un’iniziativa che promuove la cultura e la riabilitazione attraverso la creatività. Un grande lavoro di squadra, che ha permesso ai ragazzi di vivere un’esperienza unica e significativa.
Cosa ti ha colpito di più di questa esperienza?
Sicuramente vedere l’evoluzione dei ragazzi durante il percorso. In un primo momento, quando abbiamo iniziato a preparare lo spettacolo, dovevo quasi “tirarli” sul palco. Erano titubanti, con qualche incertezza, quasi a voler sfuggire a quella visibilità che li faceva sentire vulnerabili. Ma, alla fine, quando sono saliti, li ho visti cambiare. Si sono sbloccati, hanno preso confidenza con il pubblico, con il palco, con il loro ruolo. Erano disinvolti, quasi come se il palco fosse diventato una seconda casa per loro, e questa trasformazione è stata davvero straordinaria. È stato un vero e proprio processo di crescita, non solo artistica, ma anche personale. Il palco non era più un luogo di paura, ma uno spazio di espressione, di potenza e di libertà.
Proseguirai con il laboratorio a Treviso?
Sì, per ora continuerà, e sono davvero grato che ci sia ancora spazio per portarlo avanti. Tuttavia non ci sono certezze a lungo termine. La realtà delle carceri minorili è precaria e instabile, e spesso i progetti dipendono da fattori esterni che sono difficili da prevedere o da controllare. Quello che è certo è che il lavoro svolto finora ha avuto un impatto positivo, e sarebbe un peccato non poterlo proseguire e ampliare.
Speri, insomma, che il modello sia replicabile.
Sì. Si tratta di una buona pratica che meriterebbe di essere replicata su scala nazionale. Non è solo un progetto educativo o artistico, ma un vero e proprio modello di reinserimento e di riabilitazione. La cultura, la musica e l’arte sono strumenti potentissimi per aiutare i ragazzi a ritrovare la propria identità, a superare i propri limiti e a costruirsi una vita diversa da quella che avevano conosciuto. Per questo motivo, chiedo alle istituzioni, a tutti i livelli, di impegnarsi a favorire la diffusione di iniziative simili. Non possiamo più permetterci di ignorare l’importanza di investire in percorsi educativi e culturali all’interno degli istituti penali minorili. Se vogliamo davvero parlare di riabilitazione e di recupero, dobbiamo mettere in campo risorse e creare opportunità che possano davvero fare la differenza nella vita di questi ragazzi.
Tra i tanti ragazzi detenuti che hai incontrato, c’è qualcuno la cui storia ti ha colpito in modo particolare?
Le storie sono parecchie, ma vorrei raccontare quella di un ragazzo che non ho mai incontrato, eppure è stato presente più di molti altri. Si chiamava Alessandro, e stava scontando la sua pena all’interno dell’Ipm di Quartucciu, in provincia di Cagliari. Quando sono arrivato a tenere il laboratorio di rap, lui non c’era più: era morto pochi giorni prima, per un tragico incidente, durante un permesso premio. Non voglio parlare dei dettagli tecnici o giudiziari di quella morte, ma di cosa ha lasciato dietro di sé. In un primo momento, ovviamente, il laboratorio sembrava fuori luogo. Ma poi è arrivata dai ragazzi un’istanza forte: “Perché non facciamo una canzone per Alessandro?” E allora non è più stato un laboratorio, è diventato un rito. La scrittura non era più esercizio o tecnica: era memoria, dolore, rispetto. Abbiamo scritto insieme un brano che parlava di lui, senza retorica, senza mitizzarlo, ma con un affetto autentico. Da quel momento ho capito una cosa che porto sempre con me: ci sono assenze che pesano come presenze, e ci sono nomi che restano anche quando nessuno li pronuncia più. Alessandro non l’ho mai conosciuto, ma è stato uno dei ragazzi più presenti che abbia mai incontrato in un IPM.
Hai mai pensato che qualche ragazzo detenuto potrebbe sfondare, se fosse fuori?
Sì, certo. In ogni carcere minorile dove lavoro ci sono ragazzi con talento vero, a volte anche sorprendente. Alcuni hanno una metrica naturale, altri una voce che ti resta addosso, altri ancora riescono a raccontare il proprio vissuto con un’autenticità che spacca il foglio. Quindi sì, potenzialmente alcuni di loro, se fossero fuori, potrebbero anche sfondare. Ma non è questo il punto.
Spiega.
Il successo, quello commerciale, non è la misura del valore di una persona. Se un ragazzo scrive una strofa che gli permette di rileggere il suo passato e guardare avanti, allora ha già fatto un salto enorme. E se quella strofa la legge davanti agli altri, magari in aula o in un’aula bunker, allora ha vinto. Anche se nessuno lo chiama per un featuring. Per me “sfondare” non vuol dire finire in classifica. Vuol dire rompere il silenzio che spesso li circonda — o peggio ancora, li definisce.
In un podcast, parlando del tuo libro “Barre. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile”, hai detto che il rap è un genere che ha un legame forte con la sintassi, con la parola. Ecco, quale sintassi hai trovato nei ragazzi detenuti?
Una sintassi viva, scomposta, meticcia. E quindi bellissima. Quando un ragazzo scrive una strofa, spesso non segue le regole della grammatica scolastica, ma costruisce una sua architettura, con cadenze, inflessioni e parole che vengono dal quartiere, dalla famiglia, dalla strada. A volte ci trovi dentro lo slang dei social, altre volte parole arabe, rom, napoletane, cagliaritane, francesi, tunisine, albanesi. È una lingua che si muove, che cambia, che scavalca i confini. E il rap è il contenitore perfetto per questo tipo di parola. Io credo che questo allargamento dell’italiano, che molti vivono come una minaccia, sia in realtà una ricchezza enorme. Nei testi dei ragazzi si sente tutto il bacino del Mediterraneo: è un italiano contaminato, ibrido, che non ha paura di mescolare. E è proprio lì che si crea qualcosa di nuovo, di potente. Non si tratta solo di slang, ma di una visione del mondo. Poi certo, la sintassi è anche struttura. E in carcere — dove spesso la vita è fatta di frammenti, traumi, discontinuità — costruire una frase intera, con un inizio e una fine, è già un gesto rivoluzionario. Un verso di rap non è solo suono: è un ordine dato al caos, è la rivendicazione di un pensiero. Di certo non è una sintassi povera, ma una sintassi in lotta, che cerca spazio, che si prende il diritto di esistere. E ogni volta che un ragazzo riesce a scrivere quello che prova, e lo fa con le sue parole — anche sbagliando, anche sporcando la lingua — ha già fatto un passo fuori.
La trap va per la maggiore tra i ragazzi più giovani: ti sei mai sentito “snobbato”?
In realtà no, non mi sono mai sentito davvero snobbato. Anche perché secondo me la distanza tra rap e trap non è poi così netta come spesso si racconta: cambiano i suoni, cambia il modo di usare la voce, ma l’idea di fondo è la stessa. Raccontare la propria realtà, metterla in rima, cercare un’identità attraverso la parola. Poi c’è un’altra cosa che vale più di mille definizioni: io non vado lì a fare il maestro. Entro in sezione, mi presento per quello che sono, parlo con i ragazzi, ascolto la loro musica, e soprattutto faccio sentire la mia. Non mi metto in cattedra, ma mi guadagno il rispetto sul campo. Scrivo con loro, mi metto alla pari, porto le mie rime e le metto in gioco. È così che si costruisce un dialogo vero. Alla fine, se sei autentico, lo sentono. E allora il fatto che tu venga dal rap più “classico” non conta più niente: conta che tu abbia qualcosa da dire, e il coraggio di dirlo guardandoli negli occhi.
Altri progetti in cantiere dentro i penitenziari?
Siamo in un periodo intenso di saggi di fine anno e di uscite di nuove canzoni, per cui c’è parecchia carne al fuoco e molti progetti in programma, che ancora non posso svelare ufficialmente. La cosa che mi preme sottolineare è che le attività non si fermano mai: l’associazione Crisi Come Opportunità promuove la pratica del “presidio culturale permanente”, per cui i ragazzi hanno ogni settimana, per 12 mesi all’anno, la possibilità di scrivere, cantare, registrare e – quando è legalmente possibile – pubblicare le canzoni ed esibirsi dal vivo.
Qual è il tuo sogno, un progetto dentro le carceri che ti frulla in testa ma che, per ragioni che non dipendono da te, è difficile da realizzare?
Il mio sogno, che purtroppo oggi sembra quasi impossibile da realizzare, è quello di portare i ragazzi detenuti in tour per tutta Italia. Immagino un viaggio che attraversa città diverse, dove questi ragazzi possano salire su palchi importanti e far sentire le loro voci, le loro storie e le loro emozioni. Non si tratterebbe solo di un’esibizione musicale, ma di un momento di incontro, di condivisione e di riconoscimento. Un’opportunità per loro di mettersi in gioco, di confrontarsi con altre realtà e di far vedere che anche in un contesto di detenzione, dove a volte sembra che le possibilità siano limitate, ci sono talenti, creatività e potenzialità straordinarie. Purtroppo, ci sono tante difficoltà che rendono difficile questa idea. Le barriere legate alla detenzione sono enormi, sia pratiche che burocratiche, e spesso non dipendono dalla buona volontà di chi lavora per cercare di cambiare le cose. C’è un sistema che non sempre permette di superare queste barriere, sia in termini di logistica che di autorizzazioni. Ma al di là di queste difficoltà, c’è la consapevolezza che un progetto come questo potrebbe fare davvero la differenza nella vita di questi ragazzi. Non sarebbe solo un’opportunità di crescita artistica, ma anche un potente messaggio di speranza e di cambiamento, che mostrerebbe a tutti che, nonostante tutto, è possibile ricostruire un futuro, anche partendo da una situazione difficile come la detenzione.
Come ti sei trovato con la comunità penitenziaria?
La situazione in Italia è molto variabile, e ogni carcere ha le sue peculiarità, anche all’interno della stessa categoria, come gli istituti penali minorili. Quello che posso dire con certezza è che chi lavora in questi contesti si trova spesso a combattere con una burocrazia farraginosa e con difficoltà di ogni tipo. La gestione delle attività e dei laboratori, per esempio, è spesso ostacolata da questioni logistiche e autorizzative che non dipendono da chi cerca di lavorare sul campo. Non è raro che progetti che potrebbero portare grandi benefici ai ragazzi vengano rallentati o bloccati da procedure che non tengono conto della specificità del lavoro che facciamo. Nonostante queste difficoltà, il rapporto con la comunità penitenziaria è, in generale, ottimo. Il personale di polizia, la direzione e gli educatori sono professionisti che, nella maggior parte dei casi, si impegnano quotidianamente con passione e dedizione. È importante riconoscere che senza il loro contributo, niente di ciò che faccio sarebbe possibile. In questi anni ho avuto modo di instaurare un rapporto di fiducia reciproca con molte di queste persone, e credo che insieme stiamo costruendo un ambiente dove la collaborazione diventa sempre più fondamentale.
È cambiato qualcosa nel corso del tempo nel rapporto con ciascuna di queste ‘categorie’ che lavora nei penitenziari?
Sicuramente c’è più apertura verso attività come quelle che propongo, perché si è compreso che la cultura, la musica, la poesia possono diventare strumenti di riabilitazione e di crescita personale per i ragazzi. Per quanto riguarda il personale di polizia, il mio rapporto è stato sempre improntato sul rispetto e sulla comprensione reciproca. La loro funzione è quella di garantire la sicurezza, e io capisco che il loro ruolo è fondamentale, ma allo stesso tempo cerco sempre di far comprendere loro che l’educazione e l’inclusione possono essere alleati nella gestione di una struttura come quella penitenziaria. Con la direzione, spesso, ci sono stati momenti di confronto, ma anche una buona collaborazione, soprattutto quando si parla di progetti che possano favorire il recupero dei detenuti minorenni. Per quanto riguarda gli educatori, il legame è sempre stato più stretto, poiché condividiamo un obiettivo comune: aiutare i ragazzi a crescere, a migliorare e a prepararsi per un futuro che, in molti casi, è ancora tutto da costruire. In generale, penso che la comunità penitenziaria in Italia, pur con tutte le sue difficoltà, stia cercando di evolversi, cercando di dare spazio a pratiche che non siano solo punitive, ma anche educative e riabilitative. Ovviamente, il sistema è molto complesso e faticoso da affrontare, ma credo che ci sia una volontà crescente di migliorare, e che il nostro lavoro con i ragazzi possa davvero fare la differenza nel lungo periodo.
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Barre e sbarre: il rap in carcere raccontato da Kento
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