Ancora una volta si penalizzano gli studenti per la prevedibile reiterazione delle supplenze
L’Italia è stata già condannata dai giudici europei per eccessiva reiterazione dei contratti a termine nella scuola; ora, con l’inserimento nel decreto 87 di un articolo che abroga tout court il tetto temporale, 36 mesi, per le supplenze introdotto nel 2015 (proprio per regolarizzare la posizione dell’Italia a livello internazionale), «si rischia una nuova violazione del diritto comunitario», avverte Sandro Mainardi, ordinario di diritto del lavoro all’università “Alma Mater” di Bologna, e da 30 anni esperto di lavoro pubblico. Non solo. «Se il Parlamento confermerà la disposizione – aggiunge Mainardi – intravedo anche un evidente contrasto con la recente sentenza della Corte costituzionale, la n. 187 del luglio 2016, che, confermando l’impianto della Buona scuola, ha dichiarato illegittimi i rinnovi potenzialmente illimitati dei contratti a tempo determinato per la copertura delle cattedre vacanti e disponibili. Adesso, si va nella direzione opposta, aprendo a una sorta di precarizzazione a vita del personale scolastico, che penalizzerà soprattutto i giovani».
Il tema è delicato, considerato che i numeri non sono proprio bassi, visto che lo scorso anno poco più di 20mila docenti avevano alle spalle oltre 36 mesi di servizio su posti vacanti e disponibili (e quindi, ora, potranno proseguire nelle supplenze). «La disparità di trattamento rispetto al settore privato è evidente – prosegue Mainardi -. Nelle imprese non ci potranno essere lavoratori a tempo determinato oltre i 24 mesi, dopo 12 serviranno addirittura le causali. Nella scuola, niente di tutto questo, non essendoci più limitazioni sui contratti a termine; siamo di fronte ad un unicum anche all’interno della stessa Pa, senza, peraltro, legittimazione costituzionale».
Come detto, è stata la legge 107, nel tentativo di rispondere ai rilievi comunitari, a introdurre un limite temporale, tre anni, appunto, oltre cui scatta il divieto di assegnare supplenze, disegnando, al tempo stesso, su input dell’ex ministra, Valeria Fedeli, un piano di assunzioni e concorsi per debellare il precariato storico e aprire ai giovani laureati (in cattedra l’età media è oltre 51 anni). Una norma successiva ha spostato il termine di entrata in vigore della “tagliola” dei 36 mesi di un anno, così da farla scattare nel settembre 2019. Adesso un emendamento M5S-Lega, inserito nel decreto 87, cancella definitivamente il tetto dei tre anni; e fa già molto discutere. Non a caso, nei giorni scorsi, l’attuale titolare del Miur, Marco Bussetti, ha ribadito l’obiettivo di bandire concorsi «solo dove ci sono posti liberi per le assunzioni – ha detto – e vincolando poi per un periodo la permanenza di chi viene immesso in ruolo».
Il punto è che la soppressione del limite dei 36 mesi per gli incarichi a tempo rappresenta «un passo indietro – evidenzia Daniele Checchi, economista del lavoro alla Statale di Milano, ed esperto di education -. Uno dei meriti principali della Buona scuola infatti è stato quello di svuotare le graduatorie ad esaurimento, per consentire anche al nostro paese di passare a un sistema di reclutamento degli insegnanti prevedibile e di tipo meritocratico. Ebbene, permettere per l’ennesima volta di far lavorare personale in nome soltanto dell’essere in coda da più tempo e a scapito dei migliori candidati è un rovesciamento delle priorità». Ma che impatto si avrà sulla didattica? «Negativo – chiosa Antonello Giannelli, a capo dell’Anp, l’Associazione nazionale presidi -. Con il contestuale superamento della chiamata diretta, è prevedibile un ampio turn-over di precari. Ancora una volta si penalizzano gli studenti».
Fonte dell’articolo: Il Sole 24 Ore