Novembre 29, 2023

Auto, Vavassori (Anfia): «Non potremo fare a meno dell’Asia, ma dovremo spingere sulla tecnologia»

l’intervista

di Andrea Rinaldi

Auto, Vavassori (Anfia): «Non potremo fare a meno dell’Asia, ma dovremo spingere sulla tecnologia» Roberto Vavassori

C’è tempo per fare le cose per bene. Per completare senza danni collaterali la transizione all’elettrico. Per irrobustire la filiera. Per evitare esuberi nelle aziende come Marelli che stanno cambiando pelle. E per contrastare con giudizio la Cina in Europa. Roberto Vavassori da giugno è il nuovo presidente di Anfia, l’associazione filiera industria automobilistica, che in Italia conta circa 5 mila 500 imprese e 273 mila. L’ossatura dell’automotive italico chiamata dal ministro Adolfo Urso, con Stellantis e sindacati, a ridisegnare un intero settore.

Il Consiglio europeo ha dato l’ok ad applicare l’Euro 7 con due anni di ritardo. Dopo l’addio del vicepresidente Frans Timmermans, cambierà qualcosa per il settore auto in Europa e lo stop al motore a scoppio nel 2035?

«Dopo l’addio di Timmermans, la presidente Ue Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’Unione ha riportato al centro del dibattito la competitività europea, un tema abbandonato da troppo tempo. Assistiamo dunque a una sperata razionalità nei processi regolamentari europei e l’accordo sull’Euro 7 va visto in quest’ottica».

Sono servite 8 bozze…

«Significa che c’è stato un lungo lavoro di avvicinamento a posizioni che noi sostenevamo da subito: il regolamento era intempestivo, scritto male e andava emendato. C’è qualche silenzio rumoroso, come quello della Germania, ma si tratta di un percorso molto delicato: il Parlamento dovrà esprimersi, quindi ci appelliamo ai nostri europarlamentari perché abbiano una visione coerente di una Europa competitiva. Sarebbe sbagliatissimo o dannoso dire che ha vinto il fronte dell’elettrico o del diesel. Si deve pensare al Pil, a chi lavora per la decarbonizzazione e cerca una strada condivisa».

È ancora sostenibile una politica dei dazi sulle auto cinesi in Europa?

«Negli ultimi 25 anni l’Occidente ha usato la Cina come manifattura delegandole la produzione di molti beni, anche tecnologici, e questo ha comportato bassa inflazione e stabilità nei sistemi industriali. Pechino quindi è cresciuta grazie a una iniezione di tecnologia europea perciò è naturale che possa produrre veicoli in maniera efficiente. Abbiamo di fronte un competitor grandissimo, che produce 26 milioni di vetture, più del doppio dell’Europa, che beneficia di un mercato interno con volumi elevati e di un sistema non ancora di mercato».

Come reagire?

«Non si potrà fare a meno dell’Asia, dove avverrà l’85% della crescita automotive: essendo là il mercato, dovremo creare ponti con intelligenza e creare una situazione daziaria uniforme nei rispettivi Paesi. Credo che la leva della competitività per l’Europa stia nella tecnologia, aiutata dalla politica».

Spingere sul valore aggiunto.

«Per esempio, superare nel processo tecnologico l’attuale chimica della batterie, facendo a meno di materiali che dipendono da un sistema quasi oligopolistico. Diventare autosufficienti, e non grazie a miniere che non riapriremo mai, ma cercando soluzioni che portino alla neutralità tecnologica. Aprire alla liquefazione dei rifiuti solidi in una vera economia circolare. Bene dunque l’elettrificazione, ma che conti sull’energia sempre disponibile e rinnovabile: se anziché attendere il 2035 si diffondesse subito il biocarburante e la tecnologia per i vettori energetici decarbonizzati, avremmo un aumento di know how ed elimineremmo le emissioni prima di quella data».

Negli Usa i metalmeccanici scioperano per avere salari più alti.

«Se c’è una ragione di rivendicazione, è espressa in maniera rischiosa, con numeri e condizioni dal punto di vista della sostenibilità incompatibili con la competitività del sistema di produzione Usa. Pensi che oggi Oltreoceano si fatica a trovare autisti di camion con 100 mila dollari lordi all’anno di paga: occorre un bilanciamento tra un sistema che ha un 4% di disoccupazione, e che rischia il surriscaldamento, e una politica di assunzioni e di apertura delle frontiere, altrimenti ci si stritola con le proprie mani. La richiesta dei metalmeccanici parte da basi legittime, come la maggior condivisione dei profitti accumulati, però mina la competitività futura dell’auto».

Il caso Marelli è isolato o è l’inizio di una grandinata sulla componentistica italiana?

«Un campione come Marelli ha conosciuto altre ristrutturazioni, ma oggi fa più rumore perché scoppia in un momento storico di divisione: elettrico o endotermico. In Italia ci sono 60 mila addetti che possono essere messi a repentaglio da una transizione non intelligente, cioè da un abbandono troppo rapido del combustibile. Se c’è intenzione di ristrutturare a Bologna, 230 addetti capaci nella Motor Valley possono essere parte del sistema della filiera anche in altre aziende che faticano a trovare personale. Per rispondere: non è una grandinata, il tempo per attuare una transizione ordinata in accordo con aziende e sindacati c’è. Poi qualche strappo è fisiologico».

Qual è la situazione della filiera alla luce dello stop dell’economia tedesca?

«Fa male, ma siamo in un mondo ciclico. Pensi che dal 2019 al 2022 la produzione europea ha perso oltre 5 milioni di veicoli. Molte aziende automotive hanno scelto di intraprendere una crociata per il valore anziché per i volumi; infatti il valore di quanto prodotto in questi anni non rispecchia certo i volumi persi. C’è un rischio “mobility divide” se si abbandona il terreno delle vetture di fascia A e B che conta il 22% del mercato Ue. E che potrebbe essere conquistato dall’Asia».

Molti costruttori, anche Stellantis, hanno internalizzato le produzioni per risparmiare. Come reagiranno i componentisti?

«Quando un costruttore internalizza, dopo che per 25 anni ha esternalizzato, non sta risparmiando. In Germania vennero fatti accordi di flessibilità lavorativa in cambio di nessun licenziamento e le case automobilistiche internalizzarono per non infrangere l’accordo. Sono momenti transitori e l’auto elettrica richiederà minor manodopera. Per questo si sta lavorando con Stellantis e il governo a un “piano auto 2030”. E l’obiettivo del milione di autoveicoli orienta le nostre azioni, ma non è un totem, perché nessuno ha in tasca oltre 200 mila veicoli da spostare da un impianto all’altro. Quest’ anno in Italia Stellantis produrrà più veicoli che in Francia: c’è attenzione economica al nostro Paese per cui come filiera dobbiamo garantire efficienza e il governo possibilità operativa. Il ministero delle Imprese sta pensando a una Zona economica speciale per il Mezzogiorno e a delle misure per ridurre il costo dell’energia».

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