il retroscena
di Federico Fubini
L’essenza del populismo di successo è nel suo dare le risposte sbagliate alle domande giuste, che tutti gli altri ignorano. È una verità che ho capito tardi, nel 2018, quando lo stress sociale di anni di crisi portò i Cinque Stelle al potere con il loro reddito di cittadinanza, così rivedibile nei modi ma così necessario nella sostanza. E’ una lezione che non ho dimenticato. Per questo salendo da Roma a Cernobbio per il Forum Ambrosetti, giovedì scorso, ho fatto tappa a Modena. Nella rossa, rossissima Modena. E sapete perché? Perché quest’estate è stata il laboratorio del melonismo economico.
Il decreto dell’8 agosto
Il momento decisivo dell’estate è arrivato l’8 agosto all’ora di cena, quando il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto che tassa gli “extra-profitti” delle banche. Il problema è noto e voi lettori di “Whatever it takes” (la newsletter di Federico Fubini dalla quale è tratto questo articolo, ndr) lo avete letto prima di tutti gli altri qui il 20 febbraio scorso: con l’aumento dei tassi ufficiali, le banche hanno rapidamente adeguato gli interessi a loro favore sui prestiti ma non quelli a favore dei clienti sui depositi; quindi, come spiega bene sul Corriere Andrea Rinaldi, hanno guadagnato moltissimo. E lo hanno fatto – si noti – mentre beneficiavano sul credito fatto alle imprese di garanzie dello Stato, cioè del contribuente, per ben oltre cento miliardi di euro fin dai primi mesi dalla pandemia.
Modena, laboratorio economico della Meloni
In questo si inserisce Modena, dove il Pd sfiorava il 34% alle ultime politiche e ha quasi doppiato Fratelli d’Italia. Modena la rossa, dicevo, è diventata il laboratorio economico di Giorgia Meloni. Semplicemente succede che lì le piccole imprese hanno anticipato la premier di cinque giorni. Il 3 agosto scorso la locale associazione della Confederazione nazionale artigiani (Cna) ha messo fuori un comunicato dal titolo: “Allarme tassi d’interesse: imprese in ginocchio”. Si legge a un certo punto: “… una politica che dev’essere cambiata, finanche prevedendo una tassazione sugli extraprofitti delle banche”.
La domanda degli imprenditori
In sostanza il governo più di destra della Storia italiana ha intercettato, con il suo decreto, una domanda che saliva dal tessuto produttivo più di sinistra d’Italia. Possibile? Sono andato lì a vedere e mi sono trovato, nella Cna di Modena, seduto in una stanza con tre bravissime imprenditrici. Tamara Gualandi, 66 anni, che dal 1995 ha “Donne da sogno”, un’azienda di abbigliamento composta da sei donne e con due milioni di fatturato (per quasi due terzi all’estero, Russia inclusa). Elena Beltrami, 52 anni, che ha un’azienda di maglieria – Startex – da poco più di un milione di fatturato e compete ogni settimana per rifornire di tessuti di quali i grandi marchi, da Gucci a Louis Vuitton. E Luana Lovat, 52 due anni, che fa tornitura in conto terzi con 25 dipendenti e 5,5 milioni di fatturato.
Aziende e politica
Questo è un volto dell’Italia, l’altro è Cernobbio. Al Forum Ambrosetti di trovano in buona parte aziende partecipate dallo Stato, concessionari dello Stato, imprese che hanno contratti con lo Stato e banche o assicurazioni che hanno continui scambi di credito e garanzie con lo Stato. La grande impresa in Italia ha grandi manager, grandi capacità e tecnologie – in alcuni casi – ma è sempre più difficile districarla dalla politica. A Modena l’imprenditrice più brillante con cui ho parlato, Elena Beltrami, non ricordava più il nome del presidente del Consiglio prima dell’attuale (“Chi c’era? Ho un vuoto”). A Cernobbio si riunivano quelli che guadagnano tramite le banche, a Modena quelli che pagano le banche.
Le conseguenze
Sul punto le tre donne avevano idee molto chiare. Alla Startex dal 2021 i servizi bancari sono passati dal rappresentare il 3% a oltre il 6% dei costi. La “Donne da Sogno” di Tamara Gualandi lavora su ordini di otto mesi prima, a prezzi fissi, ma nel frattempo si trova i tassi sui mutui di liquidità, sui prestiti presi come sconto fatture enormemente cresciuti: i margini e la liquidità sono sotto pressione. Tamara, dice, ha colleghi che hanno dovuto richiedere nuovi finanziamenti in banca a tassi sempre più alti per far fronte alle rate dei mutui e dei prestiti a loro volta saliti rapidamente. Luana Lovat, con l’attuale costo del credito, si è resa conto di non poter più comprare i pannelli solari per alimentare i macchinari da sé e abbattere la bolletta.
L’anomalia
In parte è normale: c’è l’inflazione e nell’ultimo anno i tassi della Banca centrale europea ha alzato i tassi del 4,25%. Ma in parte no, non è normale. Alle rilevazioni della Banca d’Italia del terzo trimestre di quest’anno i “tassi effettivi globali medi” nel Paese sull’apertura di un fido fino a cinquemila euro – per imprese artigiane piccolissime – erano all’11,5% (sopra i cinquemila, del 10,05%). Gli anticipi fino a 50 mila euro sulle fatture emesse – fermo restando che la banca può sempre rivalersi su di voi – avevano un tasso medio dell’8,54%.
La morsa dei fidi per le imprese
A Modena l’altro giorno mi hanno fatto vedere il contratto di un fido di una grande banca dove l’interesse a carico dell’impresa era al 17,2%: lo calcolavano con trasparenza togliendo giusto qualcosa dal tasso di usura. Dall’altro lato della medaglia di queste condizioni sudamericane, sono i costi a cui le banche italiane si finanziano. In teoria sarebbe il 4,25% praticato adesso dalla Bce, ma in realtà il costo medio è molto più basso. Gran parte delle disponibilità di fondi delle banche in Italia viene da circa 2.600 miliardi di depositi liquidi dei clienti, che esse remunerano a un costo medio ufficiale dello 0,73% (ai dati più recenti). Quella liquidità è poi depositata in buona parte dalle banche stesse in Bce, che offre loro un rendimento del 3,75%.
Un problema strutturale
In buona sostanza il sistema bancario si finanzia ancora a costi abbastanza vicini allo zero, presta alle piccole imprese a tassi vicini o oltre la doppia cifra e remunera quasi a zero la liquidità che quelle stesse imprese depositano allo sportello. Il rendimento dei depositi non vincolati – agli ultimi dati – è dello 0,32%. Non sorprende che i conti degli istituti scoppino di salute, mentre quelli delle piccole imprese no. Da notare che questo succede dopo forti incentivi all’investimento (per esempio, “Industria 4.0”) che hanno spinto molte aziende a indebitarsi di più per comprare nuovi macchinari: ora devono far fronte a interessi raddoppiati o oltre. Da notare anche che già un anno fa, quando le banche erano ancora di fatto pagate dalla Bce purché prestassero (con il meccanismo dei “tassi negativi” sulle aste di liquidità) gli interessi praticati sui fidi ai piccoli erano già in doppia cifra o vicini alla doppia cifra. C’era già un problema strutturale di un possibile cartello di prezzo fra certi istituti in certe parti d’Italia, che ora è deflagrato.
Recessione tecnica, nulla di drammatico
Non sorprende che anche gli investimenti incentivati delle piccole imprese in beni strumentali siano crollati rispetto a un anno fa: valevano 800 milioni di euro nel luglio del 2022, ne valgono poco più di 500 nel luglio di quest’anno. A Modena, più che a Cernobbio, ho capito di essere nel cuore della recessione italiana del 2023. Non è lontanamente paragonabile a quelle che il Paese ha vissuto nell’ultimo decennio. Non è quella del Covid, non è quella della crisi finanziaria con la sua lunga coda. Niente di drammatico, perché è una recessione in senso tecnico – un arretramento dell’attività rispetto al periodo precedente – dopo tre anni di fatturati, profitti, lavoro creato e svolto. Ma visto da Modena, nell’inconsapevole laboratorio di Meloni, non fa certo piacere. Alle tre imprenditrici ho chiesto cosa pensassero della tassa del governo sugli extra-profitti delle banche. “Simpatico” mi ha detto Elena Beltrami, quella che aveva dimenticato che un anno fa a Palazzo Chigi c’era Mario Draghi. Un’altra persona in sala ha aggiunto: “Non la voterei, ma Meloni è intelligente”. Tamara Gualandi lo è anche di più, perché ha notato: “La tassa? Basta che non finisca per farci pagare il costo del credito ancora di più”. Aveva capito che la misura del governo è la tipica risposta sbagliata, dirompente e inutile, a una domanda giusta.
Cosa si dovrebbe fare davvero con le banche
In effetti sarebbe più logico forzare le banche ad alzare i rendimenti alla clientela con interventi più sottili, del governo o dei regolatori. Sarebbe più logico che l’Antitrust o altri regolatori intervenissero sulle loro condizioni quasi da usura praticate ai clienti più piccoli. Ma in questo viaggio fra Modena e Cernobbio ho capito meglio cosa intende Giancarlo Giorgetti, quando il ministro dell’Economia contrappone l’Italia che lavora all’Italia delle rendite. Elena Beltrami mi a detto che col suo milione di fatturato, con il suo capannone e i macchinari, con le donne che fa lavorare, con le giovani che forma, con i tessuti fra i migliori al mondo che produce a Carpi, ricava margini per sé di pochissime decine di migliaia di euro ogni anno. “Una volta è venuto un banchiere e mi ha proposto di liquidare tutto – racconta –. Mi ha detto che se investo sui mercati finanziari il valore del mio patrimonio, guadagno di più e vivo meglio. Non ho capito chi di noi due era di un altro pianeta”.
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04 set 2023
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