Ottobre 2, 2023

Cambiamenti climatici ed effetti sul petrolio: perché El Niño potrebbe aiutare Putin

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di Massimo Sideri

Cambiamenti climatici ed effetti sul petrolio: ecco perché El Niño potrebbe aiutare Putin

La prima testimonianza su El Niño risale ai diari di Francisco Pizarro: il navigatore spagnolo, arrivato sulle coste del Perù nel 1525, osservò delle inusuali e strane piogge in pieno deserto, un ossimoro che ancora oggi coincide con la comparsa del fenomeno ciclico. Dunque la fase di corrente calda che modifica gli equilibri della superficie del Pacifico soprattutto nella fascia equatoriale ha almeno mezzo secolo di storia. Un fatto molto rilevante anche per i ragionamenti sul climate change: difatti questo vuole dire che il fenomeno precede la rivoluzione industriale inglese del Settecento, a cui facciamo risalire – ormai con evidenze scientifiche trovate tra i ghiacci dell’Antartide – l’attività antropica con-causa della crescita della CO2. Eppure, anche se non c’è relazione tra il cambiamento climatico causato dall’industrializzazione e «il Bambino», esiste un fenomeno economico che è collegato da sempre ad esso: l’inflazione sulle materie prime.

Secondo alcuni studi molto intriganti la stessa Rivoluzione francese del 1789 sarebbe stata «facilitata» proprio dal ciclo negativo della corrente che viene scatenato ogni 2-7 anni, anche se non esiste una cadenza matematica del fenomeno di alternanza tra El Niño e La Niña, cioè tra il periodo caldo e quello freddo (tra gli anni Venti e lo scoppio della Seconda Guerra mondiale, per esempio, il Bambino non si fece sentire e dunque non può essere una concausa della Grande Depressione del 1929).

È per questo che l’arrivo della fase calda nel 2023, accompagnato dalle tensioni sui prezzi del grano causate dai 18 mesi di guerra tra i due Paesi granai d’Europa, Ucraina e Russia, ora potrebbe diventare una pedina importante anche nella «geopolitica della fame» su cui Vladimir Putin ha puntato fin dagli esordi dell’invasione dei confini di Kiev.

Grano e riso (oltre al petrolio) sono le prime risorse merceologiche su cui l’effetto della corrente calda riesce a trasferirsi a decine di migliaia di chilometri di distanza, in alcuni Paesi, attraverso la complessa dinamica delle pressioni sui prezzi con l’alterazione della domanda e dell’offerta.

Non a caso l’inflazione da El Niño con i suoi effetti macro-economici è stata oggetto di studio da parte del Fondo monetario internazionale: in un paper del 2015 intitolato «Fair Weather or Foul? The Macroeconomic Effects of El Niño», firmato da Paul Cashin, Kamiar Mohaddes e Mehdi Raissi, gli economisti dell’Fmi hanno studiato gli effetti sull’inflazione anche di Paesi lontani dal fenomeno, tra il 1979 e il 2013.

Il risultato è stato quantificato in una crescita del 5,31% del prezzo delle commodity non legate al petrolio e addirittura del 13,87% sul prezzo del barile. L’andamento esponenziale parte, secondo il paper, con l’arrivo del fenomeno a dicembre: El Niño compare normalmente con il Natale, motivo per cui le popolazioni indigene del Perù e del Cile che per primi notavano gli effetti sulla pesca lo avevano battezzato «il bambino», come Gesù.

Questo nonostante gli effetti deleteri: le correnti calde rendevano sempre più povere di pesci le reti fino a portare a periodi di vera e propria carestia. Non proprio un regalo da mettere sotto l’albero di Natale. La carenza di pesci aveva già un effetto evidente sui prezzi a causa di una domanda alta e di un’offerta ristretta. Ma fino agli studi più recenti si era sempre pensato all’inflazione da El Niño come a un fenomeno locale.

Ormai gli economisti parlano di un vero e proprio choc da El Niño. Secondo lo studio tra i paesi che soffrono di più, soprattutto per l’industria del «food», c’è la super riemergente India, che con una popolazione ipertrofica superiore al miliardo e mezzo non può permettersi di avere tensioni sul riso e il grano: gli effetti indiretti sul paniere «food» sono stimati tra lo 0,5 e l’1% dell’inflazione indiana.

Tra gli altri importanti Paesi che risentono anche a livello di crescita del Pil dello shock vanno annoverati Giappone, Australia, Indonesia, Nuova Zelanda, Cile e Sud Africa.

Come sempre c’è un paradosso anche negli effetti esogeni della corrente pacifica: Stati Uniti ed Europa, secondo gli economisti, possono contare su un effetto di rimbalzo positivo legato alla maggiore domanda di beni che si scarica sui propri mercati. Dunque in particolare per l’Europa il ciclo in passato è stato positivo. Ma è la prima volta che il fenomeno di El Niño coincide con una guerra interna che coinvolge proprio i maggiori produttori di grano. Per gli economisti si tratterà dunque di un quadro nuovo con un incrocio di tensioni il cui risultato è tutto da scoprire.

La cartina di tornasole sarà l’Africa.

La Russia, con 10,1 miliardi di dollari di valore all’anno, è difatti il primo esportatore di grano al mondo. Potrebbe sembrare un mercato stitico rispetto a tanti altri (come quelli energetici), ma in realtà in questa cifra vanno considerati anche il foraggio da animali da allevamento. Chi controlla questi 10 miliardi ha come un mouse con cui può influenzare la fame nei Paesi più poveri. Una lista degli Stati che dipendono per più del 50% delle proprie importazioni dal grano russo fornisce un’idea accurata del peso di Vladimir Putin nella geopolitica della fame: secondo la Fao, Kazakhstan, Mongolia, Armenia, Azerbaijan e Georgia dipendono quasi al 100% dal grano russo, mentre hanno una dipendenza tra il 50 e il 100% Bielorussia, Turchia, Finlandia, Libano, Pakistan e molti Paesi africani. L’Egitto comprava dall’Ucraina, nel pre-guerra, il 22% del proprio fabbisogno, la Tunisia il 49%, La Libia il 48%, la Somalia il 60%, il Senegal il 20%, la Repubblica Democratica del Congo il 14%, la Tanzania il 4%, il Sudan il 5%. Grano che è stato a lungo bloccato e che se si muove lo fa a singhiozzo. Mentre i numeri ci svelano che il granaio del mondo non ha mai smesso di mandarne verso Turchia, Medio Oriente e i clienti africani: l’Egitto continua a ricevere da Mosca il 60% del proprio grano importato, la RDC il 55%, la Tanzania il 60%, il Senegal il 46%, il Sudan il 70%, la Somalia il 40%, il Benin il 100%.

Un incrocio quello tra clima, economia e società sempre più delicato e pericoloso.

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