Ottobre 2, 2023

Save the duck, il brand «animal free» cresce con i nuovi soci francesi: obiettivo 200 milioni

il papero che fischietta

di Francesca Gambarini

 Save the duck, il brand «animal free» cresce con i nuovi soci francesi: obiettivo 200 milioni

Nicolas Bargi ha fondato Save The Duck, l’azienda del «papero che fischietta», nel 2012. Fischietta perché si è salvato: nulla di quello che viene prodotto, da undici anni a questa parte, dal brand milanese dell’abbigliamento sportivo da città, noto per i piumini che hanno come simbolo quella paperella arancione, è di origine animale. «La sostenibilità è nel nostro dna — dice Bargi —, siamo da sempre cruelty free, ma quando siamo nati era un concetto poco diffuso, nel fashion ne parlavano forse solo Stella McCartney, nel lusso, e Patagonia». Oggi è tutto un altro mondo: la moda insegue (con fatica) la sostenibilità e Bargi, che ha oltrepassato i 60 milioni di euro di fatturato, ha 90 dipendenti tra Italia ed estero e il 60% dei ricavi dall’estero, festeggia il rinnovo della certificazione B Corp, che significa essere riconosciuti come un’azienda impegnata, con successo, nel creare un impatto positivo sull’ambiente e sulla società. Save The Duck è stata la prima maison della moda a ottenerla in Italia, nel 2019.

La tecnologia e la filiera

«Tutto parte da un’idea tecnologica — spiega Bargi, terza generazione di imprenditori nel tessile attraverso l’azienda di famiglia Forest —. Ho applicato alla moda quello che già era usato nello sport: il sintetico e il filato riciclato. Poi ho aggiunto un valore etico, che a quel tempo andava incontro alle esigenze di una minuscola fetta di utenti, ad esempio i vegani». Ma non bastava. «Non esiste un’azienda a impatto zero — ripete l’imprenditore — per questo ci siamo da subito impegnati a darci degli obiettivi lungo tutta la filiera». Dal 2021 l’azienda compensa tutte le sue emissioni, disciplina l’utilizzo di specifiche sostanze chimiche lungo tutta la catena produttiva, controlla l’uso di acqua, seleziona le materie prime, è impegnata nel riciclo e in progetti di second hand. «Farci certificare per quanto stavamo e stiamo facendo è stato un passaggio naturale. Pochi giorni fa abbiamo ricevuto il re-rating di B Corp, che ogni triennio riesamina l’azienda per capire se ha ancora i parametri in regola: siamo passati da 95 a 108,4, siamo primi in Italia nell’apparel, e sesti in Europa, ma primi per sport fashion», è orgoglioso Bargi. Save The Duck utilizza il Plumtech©, un’ovatta tecnica termoisolante, in grado di ricreare la sofficità della vera piuma e che conserva i vantaggi dell’imbottitura termica. Produce, da sempre, in Cina, Portogallo, Turchia. Bargi non teme di dire «non sono made in Italy». La fiducia nella sua supply chain è solida: sono otto gli stabilimenti dedicati ai piumini, tre quelli per t-shirt e beach wear e le fabbriche sono ingaggiate negli obiettivi di sostenibilità dell’azienda. «Con tutte ho un rapporto diretto, fin dagli inizi. La sostenibilità? I primi anni ricevevo dai rivenditori risposte come “è un bel prodotto, te ne compro cento vediamo il sell out”. A nessuno interessava l’aspetto etico. Anzi mi dicevano: “Questa papera così ingombrante, non possiamo rimuoverla?” — ricorda con un sorriso Bargi. Ma per me il marchio era il messaggio, i brand sono educatori. Dovevamo essere empatici, perché l’empatia fidelizza il consumatore. Dopo qualche tempo, anche i rivenditori l’hanno riconosciuto».

Il mercato e i nuovi soci

Dopo aver “salvato” più di quaranta milioni di oche, oggi Save The Duck attraversa una nuova fase. Il mercato è favorevole, Bargi ottimista: l’azienda ha chiuso il 2022 a quota 62 milioni di euro di ricavi (più 30% sul 2021), e un Ebitda del 15% in linea con l’anno precedente. Nel 2023 l’obiettivo sono 72 milioni di ricavi, 120 al 2026. Questi nuovi numeri e una nuova strategia sono anche il riflesso della governance che è cambiata. Nuovo corso Un anno fa l’80% del capitale è passato ai due imprenditori-manager Reinold Geiger e André Hoffmann, presidente esecutivo e ceo della multinazionale cosmetica francese L’Occitane. Bargi, che è rimasto alla guida della società, ha mantenuto il restante 20%, mentre il fondo Progressio Investimenti III e gli altri soci sono usciti dall’azionariato. «Abbiamo chiuso da poco il nuovo piano industriale — spiega Bargi —, l’idea è far diventare Save The Duck un brand globale. Il nuovo modello spinge sui negozi proprietari, mentre oggi l’88% dei ricavi arriva dai 220 rivenditori in cui siamo distribuiti in tutto il mondo. Punteremo su vendita diretta ed ecommerce».
Il brand appare maturo per la scommessa sul retail: nel 2022 Save The Duck è arrivata a quota sette negozi monomarca, con l’apertura del primo store a New York, che si aggiunge ai due di Milano e quelli di Venezia, Bologna, Hong Kong e St.Moritz. A settembre un’altra apertura a Milano, poi anche Roma e Firenze. Parallelamente verrà potenziato anche l’ecommerce proprietario. «Oggi siamo impegnati nella riorganizzazione aziendale, proprio per far fronte a questa crescita — spiega Bargi —. Andrà trovato il format di negozio “giusto»” per poi spingere, ad esempio negli Usa, il nostro maggiore asset di crescita all’estero». È già partita anche la diversificazione sul beach wear e su quello che Bargi chiama smart leisure. «Allarghiamo le categorie, ma rimaniamo iconici, producendo con tessuti tecnici e riciclati, innovativi». Save The Duck beneficerà della rete commerciale, legale, fiscale dei soci: L’Occitane en Provence, quotata a Hong Kong, è un colosso globale da oltre 2 miliardi di euro di giro d’affari. Una bella spinta per raggiungere l’ambizioso obiettivo dei 200 milioni di ricavi tra cinque anni, per quello che Bargi definisce un progetto a lungo termine di evoluzione del brand. Tutto senza tradire lo spirito e salvando ancora molte papere. «Uno degli investitori, Hoffman, era già nel mio board — conclude Bargi — . Dopo aver ascoltato la storia e la missione del brand ha cambiato la sua visione e ora anche L’Occitane ha certificato B Corp uno dei suoi brand, Elemis. Lo stesso Progressio è diventato B Corp. Il bello è che l’impegno nella sostenibilità è un gioco a domino positivo: ci si influenza l’uno con l’altro, ed è così che cambia davvero il modo di progettare e fare».

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