Non è un caso che tra i produttori figuri niente meno che un nume tutelare del cinema di Hong Kong, ossia quel Stephen Chow che in carriera si era cimentato diverse volte con il personaggio del Re Scimmia: prima nelle vesti di attore, nel dittico – tutto da riscoprire – di A Chinese Odissey (1995) e in seguito in quelle di produttore, sceneggiatore e regista in un altra coppia di titoli più recenti, come potete leggere nella nostra recensione di Journey to the west (2013).
Anche in quest’occasione si limita a finanziare The Monkey King, nuovo adattamento in forma animata che ripercorre con un’ennesima interpretazione la storia dell’iconico personaggio della cultura cinese, raccontata per la prima volta nell’epico romanzo Il viaggio in occidente, basato su racconti popolari risalenti alla dinastia Tang e reinterpretato in patria diverse volte sia sul piccolo che su grande schermo, senza contare tutte le varie opere che vi hanno preso più o meno direttamente ispirazione, su tutte la saga di Dragon Ball.
Produzione originale Netflix, il The Monkey King qui oggetto di analisi è dedicato principalmente al pubblico dei più piccoli, che saranno quelli ad apprezzare di più l’ora e mezzo di visione per via dei suoi sgargianti colori e della concitata anima action che si sussegue senza sosta sin dai primi minuti. Ma andiamo con ordine…
Chi si rivede…
L’equilibrio che da sempre regna sul mondo è destinato a essere spezzato. In un universo dominato dalla saggezza di Buddha, dove gli dei immortali badano alla volta celeste e i demoni scorrazzano sulla Terra colpendo l’inerme popolazione, le dinamiche sono prossime a cambiare dopo la nascita di un cucciolo di scimmia.
Il Monkey King, considerato sin da subito un reietto dai suoi simili anche per via di un pelo dal brillante color rosso, entra in possesso di un bastone magico dotato di incredibili poteri e intende percorrere la strada per l’immortalità: per conseguire il suo scopo dovrà sconfiggere cento demoni che terrorizzano gli umani, ma la sua missione sarà più ardua del previsto. Ad accompagnarlo nella sua rocambolesca impresa una ragazzina, Lin, proveniente da un povero villaggio e che gli chiede aiuto per placare la siccità che soffoca le sue terre, mentre a mettergli i bastoni tra le ruote il subdolo Dragon King, che si sente derubato di quel bastone che era suo di diritto. Monkey King si troverà ad affrontare dei e creature degli inferi, finendo per scomodare Buddha in persona nella sua ossessiva rincorsa al potere.
Scimmie e scimmiette
Un divertimento improntato sin da subito ad un target fanciullesco, come testimonia anche la caratterizzazione – e la conseguente prima apparizione, nelle vesti di una piccola scimmietta – del protagonista, che non viene mai esplicitamente chiamato Sun Wukong (il vero nome del personaggio nel testo letterario) ma soltanto Re Scimmia.
D’altronde, per quanto frutto di una co-produzione internazionale tra Cina e Stati Uniti, è apparente come il film sia stato semplificato ad uso e consumo di un pubblico occidentale, con una narrazione che superficializza il folklore autoctono in una confezione roboante e spettacolare, rifacentisi a prototipi più o meno ispirati dell’animazione moderna.
Il regista è l’americano Anthony Stacchi, che ricordiamo al lavoro in passato sul franchise di Boog & Elliot nonché sul godibile Boxtroll – Le scatole magiche (2014), che qui non riesce ad esaltare mai le atmosfere del contesto e si perde in un caos intrattenente ma fine a se stesso, complice una sceneggiatura che non esplora a fondo le molteplici suggestioni insite nel testo all’origine e si limita ad una quest popolata di buoni sentimenti e retorica, con un paio di colpi di scena qua e là e un epilogo aperto ad ulteriori capitoli.
Non mancano gli inserti musical, con un paio di canzoncine qua e là che sembrano quasi omaggiare gli stacchi canori di una trilogia cult quale A Chinese Ghost Story e una resa dei conti a dir poco gargantuesca che ha luogo in una notte di tempesta su mari burrascosi: una prova di forza con una magniloquenza visiva di tutto rispetto, anche se a livello di character design e ispirazione nella cura dei personaggi manca quella personalità capace di offrire qualcosa di nuovo.
Aveva fatto meglio qualche anno fa un produzione indigena, riscoprite qui la nostra recensione di Monkey King – The Hero is Back (2018), che si offriva anche a un audience più matura e smaliziata, nonché mantenendo una maggior fedeltà al testo di partenza. Che qui perde di complessità e profondità, in favore di un approccio più immediato che si propone quale visione usa e getta, non totalmente da buttare ma neanche da rivedere.
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