Workaholism
di Alessandro Vinci
Chi non farebbe carte false per avere di che vivere anche senza lavorare? Domanda retorica, ma solo in apparenza. Di fronte al quesito «E tu cosa faresti, se non dovessi più lavorare?», infatti, oltre un follower del Corriere della Sera su due ha ammesso di non saper (o voler) immaginare un’esistenza che non preveda lo svolgimento di alcuna professione. Lo dimostrano gli esiti di un sondaggio condotto su Instagram a seguito della pubblicazione di questo articolo di Alessandro Trocino sul documentario After Work: il 34% degli 8.487 rispondenti totali ha selezionato l’opzione «Cercherei di lavorare ugualmente», il 19% ha dichiarato di non averne idea, mentre appena il 46% ha fornito la risposta apparentemente più scontata, affermando che ne approfitterebbe per rilassarsi e dedicarsi ai propri hobby. Nulla tuttavia di cui stupirsi, in epoca di diffuso workaholism (termine inglese che designa la dipendenza dal lavoro, alimentata da meccanismi mentali simili a quella dall’alcol). Secondo uno studio Forbes del 2019 – si pensi – a soffrirne sarebbe addirittura il 66% dei millennial, il 32% dei quali ha inoltre dichiarato di lavorare perfino quando si trova in bagno. Subliminale etica calvinista, latente rischio di burnout, incapacità di delineare il confine (spesso labile) tra il lavorare per vivere e il vivere per lavorare. Tutti temi affrontati anche in After Work.

L’opinione dell’esperta
Ma se chi ha affermato che lavorerebbe comunque lo avesse fatto perché fa parte di quel 15% di persone che nel mondo, come si apprende dal documentario, è genuinamente felice di farlo? Si tratta di un’ipotesi convincente solo in parte, e non solo alla luce della notevole differenza che intercorre tra tale 15% e il 34% emerso dal sondaggio. «Esistono senz’altro individui appassionati che vivono il proprio mestiere come un’attività piacevole», spiega al Corriere la psichiatra e psicoterapeuta Tiziana Corteccioni. «Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neppure un giorno in tutta la tua vita», recita d’altronde il celebre adagio confuciano. Allo stesso tempo – prosegue la dottoressa – «c’è però anche chi usa il lavoro come una via di fuga dai problemi, per esempio quelli familiari. In questo senso, dimostrarsi molto efficienti porta a essere considerati produttivi, a essere validati positivamente da colleghi e superiori. Il che accresce l’autostima, alimentando il circolo vizioso del workaholism». Forse ancora più critica è tuttavia la condizione dei 1.588 utenti che hanno risposto «Non ne ho idea», come se il solo pensiero di non lavorare più suscitasse in loro la vertigine di un’angoscia nichilistica: «Il lavoro è routine, consente di programmare le attività quotidiane – commenta in proposito Corteccioni –. La sua assenza porta dunque a rallentare i ritmi, ma nei soggetti che ne sono dipendenti una simile prospettiva viene percepita come un vuoto. D’altra parte chi lavora tutto il giorno non ha il tempo materiale per crearsi altri interessi».

I sintomi e i rimedi
Anche nell’esperienza personale della dottoressa i professionisti più soggetti alla dinamica sono quelli a inizio o a metà carriera. Tra i principali sintomi – riferisce – ci sono «disturbi del sonno, irritabilità, incapacità di “staccare” la mente fuori dall’orario d’ufficio». E, nei casi più gravi e protratti nel tempo, perfino «attacchi di panico, ritiro sociale e depressione, oltre al frequente insorgere di conflitti familiari proprio a causa di questa ossessività». Rimedi? «Anzitutto rivolgersi a uno psichiatra o a uno psicoterapeuta, che sapranno individuare l’origine del disagio – consiglia Corteccioni –. Per quanto possa sembrare strano, infatti, generalmente i workaholic non si rendono neppure conto di esserlo. Quando tuttavia accettano di ridurre le ore da dedicare al lavoro avvertono la differenza, riuscendo a superare il problema. In quest’ottica contare su una vita sociale appagante può fare la differenza, anche in via preventiva».
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15 giu 2023
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