Giugno 5, 2023

Meno tasse per far rientrare le aziende dall’estero: perché l’Italia può guadagnarci

la proposta

di Federico Fubini

Meno tasse per facilitare il rientro delle aziende dall’estero: perché l’Italia può guadagnarci

Andrea Silvestri, esperto di tassazione d’impresa e docente di Strategic Tax Management alla Luiss Business School, ha una convinzione: l’Italia deve invertire la classifica. Al momento delle svolte che dettero forma alla globalizzazione durante gli anni ‘80 del secolo scorso, fu fra gli ultimi Paesi occidentali a comprendere le dinamiche in corso e ad adattarsi. Adesso la globalizzazione si sta trasformando ancora una volta a causa delle rivalità fra superpotenze. I nuovi assetti in via di definizione stanno creando nuovi rischi e opportunità. Prima l’Italia riesce a leggerli e ad agire di conseguenza, meglio potrà trarne vantaggio. «Dobbiamo anticipare le grandi tendenze e non arrivare ultimi» dice Silvestri, che a questo tema ha dedicato il suo ultimo saggio: «Nuovo fisco, nuova Europa. Lo scenario fiscale in un mondo meno globale» (Franco Angeli).

Professore, quali sono a suo avviso le opportunità di un mondo meno «piatto» e di catene del valore più frammentate?

«Nel mondo ci sono oggi blocchi contrapposti, raggruppati in modo più o meno esplicito attorno agli Stati Uniti e alla Cina. Questa dinamica, unita alle conseguenze della pandemia e della guerra in Ucraina, sta ridefinendo la globalizzazione. Negli ultimi trent’anni le imprese potevano andare in tutto il mondo a cercare i regimi fiscali di maggior favore. Ora è cambiato tutto e non solo per la Global Minimum Tax, che stabilisce fra decine di Paesi firmatari un’aliquota minima del 15% per le multinazionali sopra i 750 milioni di dollari di fatturato».

Intende dire che sta partendo un processo di rientro delle attività d’impresa nei Paesi d’origine («reshoring») o dai Paesi a basso costo dell’Asia verso Paesi alleati degli Stati Uniti («friendoshoring»)?

«Esattamente. Produrre in Cina o in altri Paesi asiatici sta diventando più problematico e più rischioso in prospettiva futura, dunque assisteremo a un significativo movimento di rilocalizzazione e ridefinizione delle catene del valore. Un gruppo di consulenza olandese, la Buck Consultants International, stima che nei prossimi tre anni il 60% delle imprese occidentali rilocalizzerà almeno una parte dei siti produttivi che oggi sono in Asia. Non sappiamo se questa cifra sia accurata, ma in ogni caso si tratta di un’opportunità colossale».

Pensa che la competizione fra Paesi europei si giocherà sull’attrazione del «reshoring»?

«Andrà sicuramente così, perché l’Europa è un’area totalmente integrata. Le imprese tedesche potrebbero passare dalla Cina alla Repubblica Ceca e viceversa».

Cosa può fare un Paese con tanti svantaggi come l’Italia, dalla giustizia lenta all’alto cuneo fiscale, per attrarre quegli investimenti?

«Possiamo pensare a regimi fiscali di favore per le imprese che decidono di rilocalizzare in Italia provenendo dall’esterno dell’Unione europea. Per esempio si potrebbe offrire un’aliquota ridotta sui redditi d’impresa da attività trasferite dall’estero: aliquota Ires dimezzata al 12% e esenzione totale dell’Irap per un periodo idealmente di dieci anni, ma almeno di cinque».

Per approfondire:

Non sarebbe un costo per il bilancio pubblico, perché sarebbe comunque un gettito che prima non c’era. Ma non si rischia di distorcere la concorrenza a svantaggio di chi le tasse deve pagarle tutte?

«In termini di gettito questa norma porta solo vantaggi e nessun onere, anzi può portare molto gettito anche indiretto dall’Iva o dai redditi delle persone così assunte. Certo, andrebbe prevista una modalità d’interazione con la Global Minimum Tax, che è al 15 per cento per le grandi imprese».

Ma la concorrenza ne risulta distorta?

«Be’, è problema che avremmo comunque. Siamo in un’Europa integrata, senza attriti alle frontiere nazionali. Le imprese che dovessero rilocalizzare in Ungheria, Slovenia o Polonia pagherebbero comunque meno imposte e sarebbero in competizione con le imprese italiane. Dunque rinunciando non avremmo i vantaggi, ma avremmo gli svantaggi. Inoltre perderemmo l’occasione di avere il first-mover advantage, il vantaggio di chi compie una mossa del genere per primo».

Le delocalizzazioni negli ultimi trent’anni hanno spostato una quantità molto grande di lavoro e di competenza a bassa qualifica in Asia. L’Italia e i Paesi europei sono ancora in grado di offrire questo tipo di manodopera?

«Qui a mio avviso c’è il secondo beneficio di un’azione attrattiva sulla rilocalizzazione. Nel passare dall’Asia all’Europa molte imprese investiranno in automazione e in macchinari innovativi, per sopperire al costo e alla scarsità della manodopera e per salire di gamma nella qualità dei prodotti. Anche qui sarebbe opportuno riflettere a misure fiscali di accompagnamento».

L’Italia le pratica da anni, se lei pensa a incentivi all’investimento tecnologico come Industria 4.0.

«Purtr0oppo però oggi penalizzano le grandi imprese, delle quali invece abbiamo disperatamente bisogno. Sopra ai dieci milioni di euro d’investimento il credito d’imposta è appena al 5%, contro il 40% praticato ad esempio negli Stati Uniti con l’Inflation Reduction Act. Idealmente l’incentivo all’investimento tecnologico dovrebbe essere forte per tutte le classi d’impresa».

Sì, ma dove pensa si possano trovare le risorse di bilancio?

«Non sono un esperto del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma si parla molto di rimodulare questi fondi. Dare crediti d’imposta alle imprese che investono ha una grande efficacia per le ricadute nell’economia, ormai ben dimostrata da vari studi. Del resto il sistema-Italia ha bisogno di rafforzare la sua produttività e questo è il modo per farlo».

La Commissione Ue può obiettare che si tratta di aiuti di Stato.

«Mi pare che altri Paesi in questa fase si stiano facendo autorizzare molti aiuti di Stato. E credo che sia interesse di tutti far sì che il Pnrr italiano abbia successo: anche della Commissione, che l’ha voluto; e anche dei governi del Nord Europa, che lo finanziano con le risorse dei loro contribuenti».

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