Giugno 7, 2023

Caio: l’intelligenza artificiale, la grande occasione per non farsi schiacciare da Cina e Stati Uniti

Caio: Intelligenza Artificiale? È la grande occasione europea per non farsi schiacciare da Cina e Usa

Una straordinaria occasione per l’Europa. Lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale può rappresentare per l’Italia e per l’Ue una eccezionale opportunità per recuperare uno spazio da protagonista tra i due grandi blocchi che si sono formati sfruttando le prerogative dell’Ai: Cina e America. Ne è convinto Francesco Caio, manager con un passato in Olivetti, Merloni, Cable & Wireless, Avio, Poste e Saipem, un europeista convinto che è appena tornato dalla Silicon Valley.

Quali sono le maggiori differenze, tra Europa e Stati Uniti, nell’ambito dell’utilizzo dei programmi di intelligenza artificiale?

«Il rilascio di questi strumenti di interazione, penso a ChatGpt, ha suscitato anche negli Stati Uniti, come in Europa, reazioni di sorpresa. Da una parte il grande pubblico ha avuto l’opportunità di interagire direttamente con questi sistemi, dall’altra vi è stata la consapevolezza che gli sforzi fatti sui modelli di linguaggio hanno portato a risultati sorprendenti per gli stessi sviluppatori. Ma queste iniziali interazioni tra il grande pubblico e gli strumenti dell’intelligenza artificiale si inseriscono, negli Stati Uniti, in un consolidato settore industriale che ha investito molti miliardi di dollari negli ultimi anni. Nel solo 2022, l’investimento privato nel settore dell’intelligenza artificiale degli Stati Uniti ha sfiorato i 50 miliardi di dollari – secondo l’AI Index Report 2023 curato dall’Università Stanford. A partire dal 2017-2018, lo sviluppo di questi sistemi basati sulle cosiddette reti neurali è legato soprattutto a due fenomeni. Il primo l’esplosione della potenza di calcolo, che ha continuato a raddoppiare ogni 18 mesi, tanto che oggi abbiamo in ogni singolo microprocessore una capacità enorme di elaborazione dell’informazione; dall’altra parte c’è stata una disponibilità di dati enorme, perché in questi anni tutti noi abbiamo costruito, di fatto, un gemello digitale del nostro mondo. Pensate solo a Wikipedia che, all’inizio della sua attività vent’anni fa, aveva 6 mila articoli e oggi ne ha 7 milioni, contando solo quelli in inglese. Temi che un tempo erano solo nelle aule dell’università hanno potuto iniziare ad applicarsi su un mondo sempre più reale. Già prima di arrivare a modelli come ChatGpt sono state sviluppate fior fiore di applicazioni in medicina, matematica, fisica, nello sviluppo dei software. L’intelligenza artificiale ha sviluppato in pochi mesi 200 milioni di strutture di proteine laddove l’umanità aveva impiegato decenni per metterne assieme 190 mila. Quindi condividiamo con l’America lo stupore davanti a ChatGpt, ma negli Stati Uniti questi sviluppi si inseriscono in un processo industriale avanzato. Sono passati dalla fase Strano ma vero, all’industria».

La lotta al Covid è stata possibile proprio utilizzando questo tipo di intelligenze, vista la rapidità con cui si sono elaborate delle risposte vaccinali ad una minaccia che non era stata immaginata.

«Assolutamente sì. Soprattutto abbiamo visto che, nella previsione dello sviluppo delle varianti, l’intelligenza artificiale ha consentito a tanti laboratori di avere una ragionevole stima di varianti che poi si sono effettivamente presentate. Questo perché hanno potuto simulare un numero elevatissimo di permutazioni e con queste reti neurali attribuire livelli di probabilità diverse alle diverse ipotesi di mutazione».

Abbiamo detto della sanità. Quali altri settori ha visto, negli Stati Uniti, toccati pesantemente dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale?

«A me ha fatto molta impressione parlare con persone che lavorano nello sviluppo del software. In particolare un team focalizzato sullo sviluppo di applicazioni nel fintech, dove stanno molto concretamente pensando di passare, per lo sviluppo di nuovi servizi, dai sei-otto mesi di oggi a qualche settimana».

A proposito di Fintech, anche in Italia, da qualche anno, funzionano i Roboadvisor, gli investitori automatici. Nella loro generalità si sono rivelati un flop clamoroso.

«Sì, ma dobbiamo fare un passo indietro. Fino a qualche tempo fa, si sono usati diversi modelli teorici per sviluppare questo tipo di applicazioni. Vi era chi applicava logiche che cercavano di utilizzare delle regole di base, dei principi universali, per guidare un’analisi o una conversazione. E anche le cosiddette reti neurali che sono alla base degli sviluppi più recenti, al tempo, avevano pochi nodi e prestazioni limitate. I Roboadvisor, come tante altre applicazioni degli anni scorsi nascono più vicini a una logica di principi generali, in pratica uno sviluppo dell’intelligenza artificiale che si è poi rivelato limitato. Oggi lo sviluppo del software cui accennavo nel fintech si basa su un nuovo mondo dove le reti neurali complesse – un tempo solo teoria – rendono possibile un nuovo sviluppo tecnologico delle macchine».

Visti gli Stati Uniti, a che punto è l’Europa?

«L’Europa ha tantissimi centri di ricerca sull’intelligenza artificiale, ad alto livello. La sfida è duplice, la necessità di mettere a fattore comune, a livello continentale, gli sforzi che tutte queste università e questi centri stanno facendo, e l’altra è la governance, e qui faccio riferimento all’AI Act dell’Unione Europea che testimonia la consapevolezza europea su questo aspetto, ma di cui si discute da almeno un paio d’anni. In questo caso, la riflessione da fare riguarda anche la velocità con cui si mettono a terra i necessari contorni normativi di settori ad alta capacità di sviluppo. Ci sono elementi incoraggianti. L’11 maggio, la settimana scorsa, le commissioni giustizia e mercato interno hanno approvato un primo set di nuove norme Ue per l’intelligenza artificiale. Un altro elemento fondamentale per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale è la capacità di disporre di notevole potenza di calcolo. E ci sono progetti europei che possono essere messi a fattore comune. Penso al supercomputer di Bologna, Leonardo, che è frutto di un progetto europeo. Un altro che potrebbe andare online a breve è Mare Nostrum di Barcellona. Ma poi c’è Edimburgo, il centro di ricerca Max Planck in Germania, il Politecnico di Milano, l’Università di Pisa. Gli strumenti non mancano».

C’è un tema di coordinamento di questi centri. Mentre l’America è una, l’Europa è plurima.

«È vero. Anzi mi lasci dire, non solo l’America è una, ma anche la Cina è una. E questo passaggio tra il laboratorio e l’industria sta facendo emergere, ancora una volta, un duopolio importante a livello geopolitico tra Stati Uniti e Pechino. Io, da europeista convinto, leggo questa doppia contrapposizione come uno stimolo straordinario a creare un blocco europeo a livello continentale, per una visione armonica di questi sviluppi, che poi altro non è che la messa in pratica dei principi di Lisbona».

Ma non è tardi?

«Sicuramente questi due Stati hanno investito e continuano da investire grandi risorse: Stati Uniti soprattutto in applicazioni tecnico scientifiche, laddove la Cina ha investito soprattutto su controllo e sorveglianza. Ma è anche vero che siamo all’inizio di una nuova fase industriale e non c’è scritto da nessuna parte che l’Europa – e l’Italia – non possa aspirare ad essere protagonista nello sviluppo dell’offerta e non solo nelle regole e nella domanda».

Uno dei temi caldi è la difesa della privacy.

«Certo, ma dovremmo fare i conti con la complessità di questi modelli. E l’iniziativa del garante italiano della privacy nel caso di ChatGpt ha una valenza segnaletica della presenza di uno Stato nel dialogo con chi gestisce questi sviluppi. Io guardo favorevolmente a una qualche condivisione delle regole d’uso in settori come questo. Però bisogna anche essere molto consapevoli di come ci si muove. L’applicare il diritto alla privacy laddove queste macchine vanno a leggere le centinaia di milioni di messaggi che gli stessi cittadini lasciano liberamente in pubblico, penso ai social, diventa estremamente complicato da un punto di vista pratico. Quello che si può ipotizzare è la creazione di meccanismi di governance più ampi, in cui ci sia un ruolo editoriale di chi gestisce queste reti, la possibilità di avere dei ‘check and balance’ dei vari fenomeni, domini semantici di applicabilità o meno, e in questi sicuramente anche la necessità di una giusta privacy».

Oltre alla privacy è il lavoro di milioni di persone che viene messo a rischio.

«In prospettiva chi fa lavori amministrativi, ripetitivi, di processo, oggi è in una posizione critica: chi fa sviluppo software di routine è potenzialmente a rischio. Chi fa il traduttore, oggi no, ma magari domani o dopodomani non rischia forse di perdere il lavoro, ma di vedere il salario molto limitato. Non per questo dobbiamo arrenderci. Per esempio, in ambito sanitario: per la componente amministrativa – visto che c’è un budget limitato, non dico oggi ma in prospettiva – si possono liberare risorse dalle scrivanie per portarle negli ambulatori, nei Pronto soccorso. Certo immaginando opportuni meccanismi per aiutare la fase di transizione tra ammortizzatori sociali e programmi di formazione. Quindi, se c’è una condivisione di questa visione, ritengo che questa possa essere vista come una buona notizia. Gli americani che sono bravissimi a fare le sintesi, dicono Augmentation, not Automation. Ovvero aumentiamo le nostre competenze e lasciamo alle macchine i lavori di routine».

La massa di dati analizzati è un elemento essenziale.

«Associata alla enorme potenza di calcolo che ha reso possibile costruire modelli molto complessi: basti pensare che ChatGpt nella sua versione 4 conta circa 100 trilioni di parametri. È chiaro che ci troviamo di fronte a una potenza di calcolo in grado analizzare in parallelo e a grande velocità tanti pezzettini, con passaggi che individualmente magari non sono particolarmente intelligenti, ma che nel complesso riescono a fornire prestazioni che in alcuni campi, noi umani, riusciamo solo ad immaginare».

Ci sono degli importanti aspetti etici. Come li vede affrontati?

«È un tema molto complesso ma penso che, ancora una volta, la definizione di valori complessivi all’interno del quale sviluppare queste tecnologie, sia importante. È l’occasione per l’unione europea di manifestarsi al mondo».

Ma questo non può essere un limite? Visto che già c’è un ritardo nei confronti del blocco cinese e del blocco americano una interpretazione etica non può rallentare ulteriormente il passo dell’industria europea?

«Per questo penso che, insieme a nuove regole, ci devono essere delle iniziative di tipo tecnologico industriale. L’Europa deve fare tesoro delle lezioni degli ultimi vent’anni e sfruttare questa nuova ondata tecnologica per recuperare un ruolo di assoluta protagonista. Non solo regole, pure indispensabili, ma ricerca e innovazione tecnologica».

Gli Stati Uniti hanno investito molto nell’industria sanitaria e militare. La Cina sui temi della sicurezza. In quale settore potrebbe dirigersi l’Unione Europea per giocare un ruolo da protagonista del prossimo futuro.

«Penso ci sia una enorme opportunità nell’ambito della transizione energetica. La transizione energetica pone un livello di complessità dei sistemi che vanno costruiti estremamente elevato. Lei pensi a come è cambiato l’ecosistema energetico. Avevamo un mondo in cui pochi gruppi producevano l’energia per tutti, stiamo dirigendoci verso un mondo dove un numero molto elevato di attori consumerà e produrrà. La capacità di prevedere, organizzare, stoccare, distribuire, misurare energia va verso una moltiplicazione di complessità. Mi sembra il terreno ideale per queste macchine. E obiettivamente in Italia più che altrove in Europa, abbiamo strutture sociali policentriche e quindi la possibilità di avere una pianificazione e un servizio alla popolazione che si articolano. Consapevoli del fatto che nell’energia non ci sono risposte ideologiche, ma un unico grande obiettivo che non è quello di salvare il pianeta, che si salva da solo, ma di salvare noi su questo pianeta. Sono equazioni molto complesse, ma francamente io vedo l’Europa molto ben posizionata».

Ma se davvero siamo ancora in tempo per conquistare un ruolo di leadership in questi mercati caratterizzati dalla influenza dell’intelligenza artificiale, che cosa bisogna fare, in concreto.

«La discussione sull’AI Act a livello europeo sembra ormai chiusa. Successivamente andrebbero portati questi argomenti a livello di G7 e G20: sono materia per quel tipo di agende. Infine, non sottovaluterei la progettualità del Pnrr per investire nel giusto mix tra infrastrutture fisiche e infrastrutture immateriali, che potrebbero avere un’applicazione immediata».

Nel momento in cui noi dipendiamo per una determinata attività da un algoritmo, diventa strategico chi quell’altro algoritmo lo scrive, con un evidente tema di discrezionalità.

«Vero, ma non dobbiamo dimenticare che c’è una dimensione di mercato e di concorrenza che anche nell’era dell’intelligenza artificiale, continuerà a decretare il successo di questo o quel sistema. Penso che la riflessione vada fatta imparando un po’ del recente passato; ricordiamo come all’inizio del suo sviluppo Internet fosse associata a un’idea di democratizzazione dell’accesso all’informazione, di uguaglianza… In verità il mondo ha avuto quello, ma ha visto anche le grandi concentrazioni, l’effetto rete, dove pochi gruppi dominano il loro settore. È una lezione che dovremmo ricordarci per definire le giuste regole antitrust anche per l’Intelligenza Artificiale».

Quali pericoli vede da un diffuso utilizzo dell’intelligenza artificiale?

«Credo sia necessario un approccio cauto. Non bisogna né farsi prendere dal panico, convinti che queste macchine prenderanno il controllo delle nostre vite domani, né pensare che sono dei gadget o poco più, la cui moda passerà rapidamente. Non siamo né nell’uno, né nell’altro caso. L’intelligenza artificiale è un ingrediente fondante del nuovo tessuto industriale che dobbiamo costruire. Quindi, approfittiamo di questa discontinuità e guardiamola come una grande opportunità, che va governata».

Con Pierangelo Soldavini ha appena scritto «Digitalizzazione per un nuovo rinascimento italiano». Qual è il messaggio del libro?

«Quello che emerge è che la digitalizzazione – che negli anni scorsi veniva vista come un modulo da aggiungere a un tessuto già definito: le strategie aziendali, le politiche industriali o l’azione di governo – è diventata oggi un elemento fondante per fare un salto di competitività e anche di qualità della vita. Quello che con Pierangelo Soldavini abbiamo evidenziato nel libro è che forse si è speso troppo tempo per dire quanto sono potenti i mezzi e ci siamo dimenticati dei fini, ovvero di quanto ambiziosi possiamo essere nel disegnare un mondo nuovo, basato sulle tecnologie digitali».

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